Poesia intensa, ricca di afflati spirituali e attraversata da profonde e dolenti meditazioni sull’esistenza, è quella che troviamo in questa quarta silloge, “Il Tutto o il Nulla”, dell’autrice di Sciacca Antonella Montalbano, Il Convivio Editore, 2017; una poesia che mette armonicamente in sinergia fede e ragione, filosofia e teologia, spiritualità e ricerca interiore e che va letta, dunque, sotto il segno di un “evangelico candore”: candore,
perché l’autrice dà alla sua parola un imprinting immediato, senza mediazioni formali di scuola, come risultato di un forte sentimento interiore da mettere in circuito comunicazionale; evangelico, perché intimamente connessa alla sua identità di fede cristiana che entra nelle pieghe della storia per assumerla nelle sue luci e nelle sue ombre.
Rispetto all’esordio, avvenuto con la raccolta “Finestre sull’anima” del 2008, ove il verso rifulgeva molto di connotazioni eucologiche “ad intra”, l’itinerario poetico della Montalban si offre adesso come magmatico impulso a trascinare in giudizio sia la storia che lo stesso Dio rispetto al disagio di una solitudine divenuta universale, rispetto, altresì, allo smarrimento valoriale e della fede e al dilagare di un male che lascia traccia profonde di disumanità nel nostro tempo e che la poetessa indaga nella sua prima dimensione originaria, accogliendo anche il patrimonio della cultura cristiana da Agostino a Pascal e Kierkegaard, tanto per fare qualche esempio.
Sono dunque versi, quelli presenti in questo volume, che arrivano al cuore del lettore come “parola straziante”, “parola orante”, “parola interrogante” che scava dentro il mistero della vita, e con la consapevolezza dell’autrice che l’uomo contemporaneo vive il tempo del nichilismo, del frammentismo e del naufragio spirituale e umano nel quale, però, ognuno non smette di cercare un’àncora, un aquilone su cui salire per rinascere, proprio come fa la poetessa “…Adesso, ancorata su uno scoglio (immersa nel silenzio), inseguo ancora il mio aquilone”.
Non è un caso che Antonella Montalbano – come si evince anche dalla sua nota iniziale – dia alla sua opera una strutturazione teleologica, un impianto, cioè, che guarda, in particolare, al raggiungimento di un fine: la rinascita di un vero Umanesimo, la riscoperta della Trascendenza come forza propulsiva della vita, l’apertura alla fede cristiana intesa come relazione con il divino libera da residui ideologici.
C’è allora, in questo libro, una vera e propria “categoria dello spirito”, e marcatamente dello “spirito cristiano”, atteso che la versificazione risulta imbevuta di linguaggi salmodiati che riprendono anche lemmi di chiaro significato biblico, come “Abbà”, “Ruah”, “sarx”; la poetessa si abbandona ad un itinerario poetico che opera una lettura metafisica e “trans-storica” dove il messaggio risulta sempre finalizzato al bisogno di suscitare domande che portino alla scelta dell’umano contro il disumano e a porsi in atteggiamento di attesa non passiva ma capace di intercettare la “scala” che Dio offre agli uomini per aprirsi all’amore e ristorarsi:
“Ho steso ancora le mani, colme di speranza inattesa ,
ma solo grida di oppressi dinanzi al tuo sguardo muto,
mentre tu, o Dio, spalanchi la tua scala agli uomini.
Tra i salmi e i canti della festa, io resto inchiodata alla terra:
tronco sterile di foglie, radici monche infilzate alla vita
in attesa d’un abbraccio che ristori“.
La bellezza dei versi della Montalbano sta tutta nella sua dimensione contemplativa, che fa assumere ai testi un lirismo struggente, emanando un respiro teologico – esistenziale di forte impatto ed intensità spirituale, che sarebbe sicuramente restrittivo collocare nell’alveo della poesia di genere, cioè quella religiosa, come, a volte, si tende a fare per isolarla dal complessivo macrocosmo letterario.
In effetti, in questa raccolta poetica il dato religioso e spirituale si lega molto al concetto di religione nella sua accezione del “re-ligare” di Lattanzio o del ciceroniano “re-ligere”, se è vero che ogni poesia di questo libro è sempre “re-ligata”, cioè oggettivamente religiosa non perché legata all’oggetto confessionale della fede cristiana, ma perché legata a tutti gli aspetti del mistero della vita: il dolore, la gioia, la sofferenza, il bene, il male, la ricerca del senso, la fede, l’amore, la libertà, la felicità, il significato del tempo, l’attesa, il fine ultimo dell’esistenza e la speranza. Pertanto, il religioso che caratterizza questa silloge poetica, offre un orizzonte ermeneutico di respiro universale, uno “spazio di teologia positiva” rivolto a tutti, anche a lettori diversamente ispirati e a non credenti.
Sotto questo aspetto, ci viene da pensare a Montale il quale, pur facendosi sostenitore, al contrario della nostra poetessa siciliana, di una “teologia negativa” , in realtà anche a lui, paradossalmente, – specie quando in alcuni suoi versi afferma : “Sotto l’azzurro fitto /del cielo qualche uccello di mare se ne va; /né sosta mai: perché tutte le immagini portano / scritto: ‘più in là’ ”, – non fa altro che rappresentare l’effimero delle cose che oggi ci sono e domani non più, ribadire la vanità e la nullità di ciò che esiste. Questa esperienza rappresentativa della realtà da parte del poeta ligure, è, sostanzialmente, identica a quella del mistico religioso cristiano, il quale mentre contempla il cielo e la terra, così grandi ed evidenti nel loro spazio, sa che domani non ci saranno più, per cui capisce che la realtà è tutta segno della parola di un Altro, cioè il Mistero che sta dietro. Paradossalmente, dicevamo, questo indagare il Mistero che sta dietro alle cose, agli oggetti, alla vita stessa fa di Montale un uomo religioso senza religione ed è la premessa alla fede come campo immediato in cui la ragione cede all’ inconoscibilità e all’inafferabilità della “Realtà Altra”.
Ecco, allora, che il discorso poetico-religioso della Montalbano va collocato nell’ orizzonte del “re-ligare”, ossia nell’ottica di quel legame che si stabilisce tra gli interrogativi profondi dell’esistenza umana e i dettami della fede, ove il mistero non diventa “l’absurdum” quanto il luogo in cui ragione e sentimento poetico fanno spazio alla speranza della Rivelazione; e Antonella Montalbano, che, come Rebora, Turoldo e Luzi, è donna di fede che accampa nel verso il suo bisogno di comprensione del mistero, affida i suoi versi ad una costante ermeneutica degli accadimenti umani letti alla luce della fede, come, ad esempio, nel trittico per Aleppo e Mosul ove il suo cuore si fa domanda ( “Quanto altro male (Signore), prima di giungere al porto sospirato?”) carica di sofferenza aperta alla speranza per due città simbolo della ferocia della guerra civile in Siria e Iraq, ove pesanti bombardamenti aerei e terrestri hanno fatto strage di donne e bambini, distruggendo persino gli ospedali:
“Nonostante imperversi l’orrore ovunque,
io attendo la vittoria sul destino della croce
che oggi non risparmia i più fanciulli.
Ma la speranza sa nutrirsi ancora:
il dolore può assopirsi e dormire, velando gli occhi alla morte.
La vita ha il sopravvento e ricomincia”.
Anche nel dittico “Profughi” aleggia il tono di una poetica che si fa indignazione verso il male, riperpetuato nel tempo dal duello tra Caino e Abele, reinterpretato dall’autrice alla luce della teologia della croce nel quadro del rapporto tra l’Africa e l’Europa e con il ricorso ad echi quasimodiani lì dove il suo verso si allunga: “Come canteremo i canti della gioia, se non vi riconosciamo fratelli, quando ascenderemo alla Patria celeste?”
Cos’è allora il “Tutto” della poetessa, se non l’assunzione contemplante della realtà nel suo divenire complesso e mutevole, nel suo dispiegarsi storico doloroso e sofferente, nel suo allargamento dall’ “io” individuale alla “noità”, ossia al dolore collettivo dell’umanità, che l’autrice eleva al cielo mutuando il “Lemà sbactàni“ di Gesù sulla croce?: „… Non c’è più rimedio, Signore? E perché taci e non ascolti il gemito che corre / sui fili spinati di questo nuovo Auschwitz? / Forse la pace ha bisogno di tragedie nuove. / Resisterà più a lungo, domani“.
E’ con questo interrogativo nel cuore che Antonella Montalbano, lungo la sua raccolta, affronta temi esistenziali ed antropologici, nonché temi di natura civile, fra cui spicca, ad esempio, quello sulla violenza contro le donne con un testo di respiro lirico incalzante ed emotivamente coinvolgente, dove ella affida alla parola poetica sintagmi che portano alla luce aspetti di grande problematicità come la cosificazione della donna, l’atteggiamento culturale di un maschilismo che diventa violenza, la perdita d’identità della dimensione genitoriale. Nelle cinque sezioni di questo testo poetico c’è uno sviluppo diegetico in climax che stigmatizza la violenza non solo fisica ma anche psicologica , la violenza sull’anima che alza un grido contro “l’immagine violenta/ della follia dei maschi” e che raggomitola il dramma della solitudine con il ricorso ad una geometria di immagini, ad accostamenti analogici che straziano il cuore fino a far gridare alla poetessa: “Chi si ferma a considerare se questo è umano?” L’epilogo della poesia apre tuttavia un orizzonte di luce e “invera una ipotesi”, ossia che dentro l’imperfezione e l’orribilità umana possa fermentare un’attesa , un tempo di pace, la speranza che l’ipotesi diventi realtà e che il cuore non chiuda “alla vita il canto”.
La seconda sezione del volume, “Il paradiso attende”, si snoda come itinerario poetico-spirituale che non cede, però, alle lusinghe del solipsismo intimistico, atteso che tutto il corpus poetico si mostra carico di domande universali ed attraversato da vettori lirici necessitati da processi comunicativi che trovano approdo ora nel dubbio, ora nella consolazione, ora nel sogno, ora nella certezza della fede: Mentre gli uomini mi abbandonano … in te io rinasco ‘tralcio nella vite’. / Anche se stai a guardare ch’io finalmente decida d’accoglierti / nella mia terra e lasciarti innevare il mio crepuscolo.
E’, insomma, un itinerario poetico, quello della Montalbano, che conosce espressività liriche, risonanze psicologiche, delicatezze d’anima, vibrazioni interiori ed accentuazioni di “autoanalisi”, se è vero che il complesso delle idee e il calore che emana dai versi costituiscono il battito di un cuore ove poesia e vita si “con-fondono” per dare voce all’invisibile, all’inafferrabile, per stigmatizzare la pantomima dell’esistenza che vede sul palco burattinai e pupi, per stimolare azioni di bene (“E’ giunta l’ora di generar le opere, se il grembo ne è rimasto/ davvero gravido”.), per testimoniare una spiritualità d’incarnazione capace di decifrare ansie e bisogni, di cogliere con lo sguardi di Dio l’hic et nunc , il già e il non ancora, il presente e il futuro in una prospettiva escatologica.
Per quanto concerne lo stile della raccolta, i versi della Montalbano si muovono con molta libertà, passando dal verso breve a quello più lungo, dall’epigramma al prosodico, dalla discorsività poematica al lirismo, cosa che, certo, non rende omogenea la struttura formale della raccolta, destinandola ad essere varia e composita a livello di scrittura, a livello concettuale, musicale e metrico, a livello espressivo con relativo uso di immagini, simboli, figure retoriche e metafore.
Se qualche perplessità potrebbe affiorare in ordine a questa scelta formale, ci pare, in ogni caso, di poter dire che essa nulla toglie al dinamismo lirico, contenutistico, affettivo, spirituale ed interiore della poesia della Montalbano, che si palesa ispirata e dettata non da geometrie speculative e stilistiche ma dal bisogno di indicare una “strada” di “rifondazione esistenziale” alla quale qualsiasi uomo – credente o ateo – non dovrebbe sottrarsi, se non si vuole occultare la voce della coscienza che, ribellandosi al male, reagisce con determinazione per non farsi “avvelenare quotidianamente la speranza”.
Dentro le scelte formali e stilistiche della poesia dell’autrice, è tuttavia fuor di dubbio che si accampa il tormento della sua anima, e che la ragione sentimentale si impone su quella discorsiva; è una poesia “madida d’anima”, baciata di luce creativa, accarezzata da fonìe di tenerezze che danno alla versificazione riflessi di luce in un quadro di crudo realismo.
Da questa silloge, Antonella Montalbano esce come figura poetica di notevole consistenza, come voce autentica che tocca il divino e il realismo della fede senza scadimenti in toni predicatori; anzi, al contrario, suscitando provocazioni e sfide nella direzione di un “credo comune” , persuasa com’è che non potrà esserci pace sulla terra se non quando gli uomini riusciranno ad intendersi , almeno nelle linee generali, su ciò che dobbiamo attendere e sperare dall’avvenire del mondo.
I versi della Montalbano trasudano, in tutta la raccolta, di una spiritualità che cerca di individuare punti in comune tra cristiani e uomini di buona volontà circa il destino comune e il cammino verso l’avvenire; si dispiegano, altresì, con afflati di risonanza radicati nel pensiero di Teilhard de Chardin (1881-1955), lì dove quest’ultimo sostiene che l’uomo con la sua libertà diventa sempre più singolare, l’unico, l’uno, mentre nell’amore si unisce col tutto, diventa il Tutto.
La poesia della Montalbano mentre, da un lato, coglie la forte antinomia del mondo di oggi tra “annichilimento e speranza” disegnando il volto crudele della storia contemporanea in cui dominano l’egoismo, le guerre, le discriminazioni e le persecuzioni, dall’altro trova slancio per non sottrarre la coscienza all’inquietudine di domande che oscillano tra “presenza e assenza” di Dio, e per dire che occorre raccogliere la sfida a credere nell’avvenire del mondo costruito nell’amore, perché – come si legge nella poesia che chiude la raccolta – “finalmente arriverà Domenica. / Quel Giorno mi vestirai di luce, trasfigurando il pianto in una festa”. E la domenica è la festa dell’amore, non un amore vago, ma quello di Cristo: e chi crede nell’avvenire dell’amore non si chiude a Cristo, ma lo attende senza saperlo; si apre a Lui e si prepara all’incontro con Lui come uno sposo che va incontro alla sposa , e dirà: “Si. Verrò presto! Amen”.
Per concludere , la poesia di Antonella Montalbano parte dalla vita per cercare la Vita e farsi messaggio di speranza attraverso questo felice connubio di poesia e teologia, e con la consapevolezza che – come scrive Claudio Marabini in “Qualcosa resta”, Rusconi, 1975, – “quanto più la realtà ci assilla e rischia di rendere irrimediabilmente infelice la nostra vita, tanto più la poesia e la fantasia ci consolano, la letteratura diventa un bene necessario”.