Poche parole, zero sorrisi. Il Ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha escluso di sedere al tavolo di trattative per l’Ilva, chiarendo che ne sono venute meno le premesse. Destinataria del messaggio, netto e inequivocabile, la società di Arcelor Mittal e Marcegaglia, che di Ilva ha preso il controllo e che ha reagito con disappunto alla dichiarazione del ministro. Al centro della questione, che vede lavoratori sindacati e ministro dalla stessa parte, le condizioni salariali e contrattuali che, nel precedente incontro di luglio, erano state invece garantite dalla nuova azienda. Ora Arcelor Mittal fa finta di non ricordare e vorrebbe accelerare i tempi per “mettere in atto i piani di investimenti e migliorare la competitività”. A Genova Cornigliano, Novi Ligure e Taranto,
le sigle sindacali Fim, Fiom, Uilm e Usb appoggiano gli scioperi dei lavoratori che si sentono beffati da un evidente voltafaccia. Insolita, questa volta, la posizione del Governo, giustamente contrario ad una soluzione di compromesso al ribasso, tutta a scapito della parte debole. L’abitudine poco coraggiosa dei politici dell’accontentare un po’ tutti, ma con la finalità di conservare gli scranni in Parlamento, in questa fase non ha avuto la meglio. Calenda, che ha rifiutato l’ordinaria omologazione di sinistra o di destra, evitando così compromettenti etichette, ha dimostrato che le decisioni intelligenti non hanno per forza una paternità ideologica. Tempo fa, il ministro si schierò a difesa di Mediaset contro il piano del francese Vivendi di scalare l’azienda berlusconiana, con l’intento di accaparrarsi il 40% dell’intero pacchetto. O, piuttosto, di aprirsi un varco di accesso nei media dell’Europa meridionale? Comunque, l’intervento di Calenda generò più di qualche commento, avendo colto di sorpresa quelli che sono abituati a pensare in termini di centro destra e centro sinistra. Distante dalla consueta pratica del salvataggio di Stato di aziende prossime al fallimento, è stata la posizione del ministro anche nel caso Alitalia. Calenda respinse subito l’idea del soccorso pubblico della compagnia di bandiera nazionale, già salvata in precedenza, formalmente da una cordata di imprenditori italiani, incapaci, ma, sostanzialmente, con gran parte dei nostri soldi. La decisione del ministro per lo Sviluppo economico, nel caso Ilva, avrà l’effetto di superare l’impasse generata dal conflitto tra impresa e lavoratori su un duplice fronte: nella pratica, di costringere la nuova proprietà a rispettare gli impegni presi e con essi la dignità dei lavoratori, fissando anche il tetto minimo salariale; sul piano simbolico, di inaugurare una nuova stagione nel rapporto tra le due parti. Il secondo effetto, sarà quello di evitare che sia la collettività a pagare la cassintegrazione dei lavoratori in esubero, impedendone il licenziamento. Un’azienda che ne acquista un’altra, non lo fa certamente con lo spirito del buon samaritano, e nessuno lo pretende, ma per trarne profitti, il che non deve scandalizzare nessuno, soprattutto se lo fa con i propri soldi. Diverso è il caso in cui, con il pretesto di correre in soccorso di un’azienda che non ha altra prospettiva che quella di portare i libri in tribunale, chiede gli aiuti di Stato e poi pretende di tenere gli utili per sé. In un Paese normale, investimenti pubblici e privati coesistono e concorrono a produrre lavoro e ricchezza per tutti. Purtroppo, non siamo noi quel Paese. I motivi li sappiamo: apparato burocratico mastodontico e costosissimo, pubblica amministrazione inefficiente, sovrabbondanza di leggi, molto spesso inutili e contrastanti tra loro, ottusità e ignoranza politica. C’è poi un altro aspetto che attiene agli imprenditori italiani: la scarsa propensione a reinvestire i profitti, facendone un uso a vantaggio dell’intera collettività, anche in termini di redistribuzione. E per completare il quadro, vogliamo parlare anche di pregiudizi? In un Paese cattolico che non ha ancora superato le vecchie ideologie, è diffusa l’idea che i soldi siano lo sterco del diavolo ( ma tutti lo vogliono ), con la conseguenza che il capitalismo è visto unicamente nella sua accezione negativa, come sfruttamento dei deboli a vantaggio dei ricchi. Al contrario, per la religione calvinista, che mette in primo piano comportamento razionale e laboriosità, intesi come obbligo morale e adempimento dei propri doveri, il capitalismo diventa espressione del successo personale che merita il premio divino.