IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. “Normanni e visi d’arabi”: il viaggio lirico di Sebastiano Impalà tra luoghi geografici e meditazioni dell’anima

copertina libro

Il cuore di una terra, geografica e trasfigurata nell’anima, con i suoi colori, sapori, suoni, stupori e suggestioni, traluce, con forte impatto emotivo, dalla recente raccolta poetica “Normanni e visi d’arabi”, Maurizio Vetri Editore, 2016, di Sebastiano Impalà, siciliano che vive e lavora a Reggio Calabria.

Dopo l’esordio con “Ossigeno e pensiero”, ove si trovano i primi emergere dell’animo interiore del poeta, la nuova silloge si offre al lettore come “viaggio lirico” dentro luoghi caratteristici e caratterizzanti (Tindari, Stromboli, Lampedusa, San Vito, per citarne alcuni ) che raggomitolano i filmati della memoria costruendo una versificazione giuocata su immagini e figurazioni poetiche di pregnante intensità semantica.

Già le prime quattro poesie di apertura disegnano le coordinate paesaggistiche e strutturali di una dichiarazione affettiva che incanta e suscita un sentire fascinoso, come, ad esempio, in “Suoni siciliani (a Tindari)”, ove la bellezza della parola poetica si essenzializza nella melodia dolce che “esala dalle colte pietre”, nell’odore di “menta e nepitella / fra i gerani esposti al mare”, nei “cipressi in fila”, negli “ulivi e rigagnoli d’acqua”, nei “miti tintinnii di campanelli d’aria”.

Impalà esprime un dettato poetico che non è, però, mera esaltazione del luogo o rappresentazione fiabesca di un paradiso, ma “sguardo diegetico” di uno spazio ove è presente una circolarità ermeneutica tra memoria, desidero e sogno e dove ogni ricostruzione architettonica, paesaggistica, marina, geograficamente visibile, diventa trasfigurazione dell’invisibile che si muove nel sottosuolo dell’ anima: “…Si parte/ e sono sfere di grano / le tue labbra saracene”; “Occhi di persone / scrutano / granelli di esistenza / come olive umide / al frantoio della vita…Noi viviamo / questi episodi / come fotogrammi onirici…”.

Tutto nei versi dell’autore assume i contorni metaforici di una dialettica tra suolo e sottosuolo dell’anima, se è vero che il suo accostamento ai luoghi diventa , come in “Stromboli”, relazione d’incanto ove lo sguardo del poeta coglie vitalità, stanchezza, “raggi maliziosi e suadenti”, “case piccole e bianche / in sontuoso contrasto / con sabbie vulcaniche” fino a chiudersi in meditazioni che risuonano nella sua coscienza interiore: “…E salire di notte, / da solo / in cima a pensieri stantii / sentirsi compreso / nella vacuità di un concetto / morendo d’incanto…”

Dentro questo viaggio, geografico e metafisico, la poesia di Sebastiano Impalà si arricchisce di orizzonti d’umanità rilevante, come, ad esempio, nella poesia “Lampedusa (per tutti i profughi)” ove si staglia il rapporto tra bisogno ed attesa, paura e speranza, realtà e sogno, oppressione e libertà di uomini umiliati dalla storia( “…Io non volevo partire / per il mondo / alla ricerca di nuove libertà, / su barconi scalcinati / e senza senso, alla deriva…”); lo stesso dicasi per la lirica “Arcipelago”, che disegna un tracciato di relazione tra luogo fisico ( “…Mi rifugiai in te, / antro immacolato / e senza tempo, confine mio / di giorni a divenire, / isola di bellezza e dell’incanto…”) e luogo dell’anima che scrive “parole dolci / e senza senso, / su fogli di carta bianca / e pentimento…” e che si perde in un “Tu” che conosce occhi, felicità e amore: “…E / mi perdo / nelle anse coralline / dei tuoi occhi, /precipitando felice / nei fondali del tuo amore”.

Il genotesto della silloge poggia su fondamenti esperienziali e non su costruzioni mentali , se è vero che tutto l’impianto della versificazione parte dal mondo interiore del poeta che trova chiara oggettivazione anche nell’uso dei sostantivi, degli aggettivi e dei verbi, spesso in prima persona: “vivo”, “ho avvertito”, “Mi sveglio”, “Credo”, “Amo”, “Voglio”, “Salgo”, “Sono cresciuto”, “Spanderò”, “Incrocerò”, “aspetto”, “Mi adagio”, “Annuso”, “Trovo”, “Ho scritto”, “Ho sentito”, “Ho bevuto”, “Mi arrovello”, “Fuggo”, “Allaccio”, “Arrivo”, “Ho vinto”, “Ho attraversato”, “Ho camminato”, “Ho divorato”. Ogni verbo utilizzato all’interno delle varie liriche, rispecchia stati d’animo particolari del poeta, il quale, non cedendo a vuoti sentimentalismi, scava dentro di sé disegnando la parabola della sua umanità in cerca della verità della relazione con le cose, con i luoghi e con le persone. Impalà è il viaggiatore “su barche di giunchi intrecciati / e canne di bambù ./; è il cantore che nella reciprocità trova il senso dell’amore: “Credo / a tutte le parole / che mi dici, / alle storie raccontate , / alla tua voce soffiata / in notti stellate e senza vento, / ai guizzi repentini delle ciglia, / ai sorrisi / che oltrepassano le angosce…”; è il sognatore ad occhi aperti ( “Io e te /nudi nella notte / sogniamo ad occhi aperti…), che rifugge dalla “inutile follia dell’apparenza”; è il fanciullino che non ha dimenticato il tempo e i luoghi della sua infanzia, trasfigurati in “dipinti / su voli a pelo d’acqua / di libellule di stagno / e colline di creata dolce…”; è il poeta che sale “Colli infiniti” e che con la sua cetra inonda la terra.

La dimensione dell’amore nelle sue varie forme espressive attraversa con insistenza quasi tutta la raccolta poetica, dando una patina di delicata e dolce liricità ai versi, i quali si adagiano sulla pagina con realismo ma anche con un costante movimento lessicale che rende godibile il dettato poetico; piace questo amore del poeta per la sua terra, amore che esalta il legame identitario con le sue radici. In questa direzione, davvero molto bella appare la lirica “Fui”, ove il poeta richiama quell’incrocio di culture che ha sedimentato l’essere dei siciliani, quasi dei cosmopoliti sul piano della lingua, atteso che tanti popoli hanno lasciato tracce nell’isola: “Fui greco e saraceno / arabo e normanno / francese nella testa /spagnolo nell’inganno…”.

Questa raccolta di Impalà si configura, senza dubbio, come un mosaico di espressioni liriche toccanti e suadenti ove ogni poesia è un quadro di colori, una geometria di chiaroscuri, di effetti sentimentali, di richiami a personaggi come Sciascia, Neruda, Doris Lessing; si dispiega, altresì, come un’esplosione di stati d’animo che fanno involare il poeta “verso orizzonti / nuovi e indefiniti, / nell’indeciso battito d’ali…/”; si connota, ancora, come una rivisitazione di luoghi e di tempi, di istanti e di silenzi che si intrecciano come perle di un vissuto che ha visto il poeta camminare spedito senza mai voltarsi indietro e con la consapevolezza che il futuro va cercato dentro di sé: “…Ho vinto la mia guerra / col passato /, adesso il mio futuro / è dentro di me.”

Sebastiano Impalà entra nei versi con lo spirito di chi crede che “Il sogno diviene / presto realtà” ed “immagina la vita / oltre l’amore”; sono versi, i suoi, che conoscono i sentimenti dell’amicizia e dell’amore, le suggestioni degli affetti, il tempo delle analogie, l’umorismo della frase, la semplicità dell’argomentare dentro un abito linguistico che coinvolge, appassiona e che, con i suoi toni meditativi, come, ad esempio, in “Maddalena, terra mia”, riesce a disegnare lineamenti paesaggistici, psicologici e fascinosi che aprono all’incanto e alla fiaba: “Filari di vigna”, “boschi d’ulivi”, “Stormi d’uccelli”, “Foglie di catrame”, “Cicale raggruppate” diventano lo scenario lirico-bucolico “nel” quale e “con” il quale la terra si fa forma di vita e immagine esemplare.

Normanni e visi d’arabi” è, dunque, un libro che il poeta offre al lettore come una tavolozza dalle molteplici cromìe: v’è “l’amore che prende all’improvviso”, il tuffo dentro il “meriggio appassionato”, “il sonno che ingenera sogni”, l’ombra perversa del sentimento, il richiamo di miti e di figure come Ulisse ed Enea, lo scorrere di “lacrime di gente / soffocate da respiri acrilici”, l’afflato di sensi di colpa, “il rumore delle macchine” “il gioco alla morra dei bambini sotto coperte di lana”; insomma, v’è tutto un suggestivo mondo interiore che si fa commozione narrativa dinamica, ricordo di accadimenti e condizione di speranza, malinconia e forza di ripresa, illuminazione metaforica e favola segreta di suoi nuovi pensieri.

La poesia di Impalà scorre pensosa dentro strutture ove ogni legamento lessicale e metrico non appesantisce il dettato ma lo esalta dentro segni grafici, concetti allusivo-metaforici che passano dall’intimo al relazionale, dal privato all’universale, dal micro al macrocosmo.

Normanni e visi d’arabi” è sicuramente una silloge in cui il poeta e l’uomo vanno insieme, i luoghi e l’anima si intrecciano e si fondono, l’amore si fa dolore e carezza, la vita orizzonte di commozione e dove risalta una parafrasi di interpretazione della realtà con una chiara impronta lirica. Una silloge che non cede ad un fotografismo di pesante monotonia, ma che sa trascendere l’innocenza del cuore e dove la ragione aderisce al sentimento per aderire, insieme, al cuore del mondo.

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