IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. Luoghi della memoria nel libro “Modica Mazara Adria Miliano. Il treno racconta”

copertina (Modica Mazara Adria Milano)1

L’itinerario culturale di Cesare Lorefice, nativo di Mazara, cresciuto a Modica e che dal 1974 vive ad Adria in provincia di Rovigo, trova una sua ulteriore estensione letteraria nel suo nuovo libro di narrativa, dal titolo “Modica Mazara Adria Milano. Il treno racconta”, Piscine Sirio, 2017, ove il rapporto tra storia, letteratura e memoria assume rilevanza sia sul piano narrativo che su quello della rivisitazione affettiva e del ricordo.

Il titolo del volume utilizza l’icona del treno, che è la metafora della vita in cammino, ove il tragitto, le fermate, le salite, i luoghi, le tappe, le soste ne caratterizzano il valore e il senso. Su questo treno, è vero, viaggia l’“io narrante” dell’autore con le sue memorie, ma è il treno universale su cui viaggiano gli uomini raggomitolando storie, amori, gioie e dolori, meraviglie e stupori, ricordi e affetti, sogni e speranze.

Cesare Lorefice inizia il suo percorso da Modica, la città che lo ha visto crescere e dove i luoghi, gli odori , i sapori, le tradizioni e le persone che egli fa riemergere dalla memoria hanno la freschezza e la bellezza del sentimento che sa affabulare il lettore. A cominciare dal nonno Giovanni, dallo zio Ernesto Lorefice con il figlio Massimo, dinamici imprenditori con lo sguardo sempre proteso in avanti, e poi Tano Vasta , socialista, membro di spicco del Sindacato Ferrovieri, per passare quindi ai luoghi fisici che sono anche luoghi dell’anima, tra i quali spicca la stazione di Modica, adagiata sul margine sud di una profonda vallata su cui scorre il torrente Fiumara. Allora – racconta l’io narrante – non c’era ancora tra le cime della vallata il ponte Guerrieri, iniziato nel ‘63 ed inaugurato nel ‘67, che unisce il quartiere Sorda e il quartiere Dente e, dopo 550 m., immette direttamente sulla provinciale per Ragusa evitando l’attraversamento della città. Un’opera mastodontica per quei tempi, destinata a diventare con i suoi 137 m. il ponte in muratura più alto d’Europa, fortemente voluto dall’onorevole Emanuele Guerrieri. La stazione ferroviaria di Modica – prosegue il racconto – divenne famosa dopo il conferimento nel 1959 del premio Nobel per la letteratura a Salvatore Quasimodo, che a Modica nacque nel 1901 ed abitò sino al 1908, in quanto il padre vi prestava servizio come capostazione, come ricorda la lapide posta all’ingresso che riporta i versi del poeta ‘…Quel rosso sul tuo capo era una mitria, una corona con le ali d’aquila…’ ”.

Non mancano, ancora, nella narrazione, gli affacci al litorale marino di Santa Maria del Focallo e di Donnalucata, che rievocano Nonna Pina, siracusana di origine, “abilissima nel cucinare il pesce appena scaricato dalle barche che riempiva le narici col suo profumo di mare: sarde, gamberi, merluzzi, polipetti”, accompagnato dal grido cantilenante dei pescatori: “Chi beddu u pisci… è ancora vivu e si movi, accattativillu!”, -cioè compràtevelo…!”.

Modica risuona dentro il pathos interiore dell’autore con una bellezza descrittiva semplice, genuina, carica di emozioni, specie quando Lorefice si addentra nel ricordo della via Tremilia ove egli, insieme al fratello Giovanni e alla sorella Grazia, abitava in due stanze sottostanti la casa del nonno Giovanni, che chiudeva la via, una via dall’antico nome latino che si abbarbicava su un costone di roccia e terminava proprio con la porta d’ingresso della casa del nonno.

Il percorso narrativo è tutto un fluire di ricordi, di sentimenti e immagini rimasti scolpiti nel cuore, a partire dalla villa del celebre agronomo Prof. Giacomo Albo, che era riuscito a selezionare una varietà di grano portante due grosse spighe su un unico stelo, con la possibilità di una resa doppia dai raccolti; per passare poi al deposito locomotive della stazione di Modica, che deteneva il primato di esser il più meridionale d’Europa oltre che il parco macchine più vario e ricco di locomotive; e ancora al convento dei Cappuccini che incombeva sulla via Tremilia col sovrastante Sanatorio Cascino, fino a scendere alla ferrovia ed osservare più da vicino le locomotive in manovra, delle vere meraviglie meccaniche. “ Via Tremilia – afferma l’io narrante – mi è tanto cara perché è lì che ho mosso i primi passi e giocato tanto, assistito e circondato dall’affetto dei miei genitori, dei miei nonni e dei miei zii. Di mio nonno Giovanni conservo vivido il ricordo di quando nonna Maria faceva i maccheroni e lui scendeva giù ad invitarmi a pranzo: “Figghiu veni a manciari ccu’ mia”, diceva con quella sua voce flautata e suadente che non dimenticherò mai”.

Il pensiero descrittivo dell’autore si sposta, poi, nel suo procedere memoriale, su Mazara del Vallo ove alcune figure femminili come la nonna Caterina Fasulo, le cugine Terina e Rosetta, zia Nina, riannodano i ricordi di Lorefice che racconta dell’incontro del padre con la madre durante una partita di pallone mentre seguiva come inviato speciale della “Gazzetta dello Sport” la squadra di calcio del Modica, in trasferta a Mazara, poiché aveva l’hobby del giornalismo e della scrittura, oltre che della pittura e della fotografia, anche se come lavoro era impiegato all’ufficio dello Stato Civile del comune di Modica. In un susseguirsi incalzante di ricordi, l’autore non manca di inserire nella narrazione vari accadimenti storici, tra i quali il voto alle donne, le elezioni politiche del ’48 e l’attentato a Togliatti.

L’estro narratologico di Lorefice ci dà, in particolare, uno spaccato antropologico della nostra terra siciliana connotandosi quasi come una “incursione nel quotidiano”, un affondo dentro l’ethos patriarcale della famiglia siciliana, fatto di semplicità, di sentimenti religiosi e di tradizioni come quelle che troviamo raccontate nei capitoli terzo e quarto del volume, ove l’autore indugia nella descrizione de la novena di Natale, i giochi di una volta, la festa dei Morti, i tre Santi Patroni di Modica, la Madonna Vasa Vasa, l’agnellino di pasta di mandorle. Nel fluire della narrazione trovano spazio anche ricordi di forte tenerezza come l’aquilone senza fili, il primo giorno di scuola di un bambino, le sorelle Nasca e il forno di Marcello Perracchio, le suore di via Dente, la caserma dei carabinieri a cavallo e il cinema Moderno.

Ecco, guardando in prospettiva metanarrativa è come se l’autore volesse offrire ai sui lettori pezzetti di vita finalizzati a ridisegnare nella contemporaneità una metafora dell’identità collettiva

Modica, Mazara , Adria e Milano per Cesare Lorefice hanno una loro posizione geografica, spaziale, ma non sono solo luoghi geografici, quanto una costruzione antropologica, perché attraverso di essi egli ritesse una storia di vita e di rapporti connotandoli di una funzione simbolica: sono i luoghi in cui è nato, cresciuto, in cui ha studiato, amato, lavorato, sognato, gioito, sofferto e fortificato la sostanza del suo esistere. Sono, insomma, “luoghi di senso”, di orientamento e di una ermeneutica della sua vita.

E questa navigazione all’interno dei luoghi, delle tradizioni e dell’ethos siciliano non è un semplice guizzo di nostalgia, ma assume il volto di una metafora finalizzata a dare un messaggio chiaro: bisogna ancorarsi alle proprie radici non per un mero conservatorismo, ma per affrontare la navigazione contemporanea della vita.

E così vediamo che nei capitoli dal sesto al nono l’autore affonda il suo pensiero su accadimenti che ricostruiscono vicende che toccano il micro e macrocosmo della società degli anni ’60 come l’ attenzione al fenomeno dell’emigrazione, ivi inclusa quella dello zio Ernesto a Milano, il sogno di Enrico Mattei, il terremoto del Belice, per poi addentrarsi nei meandri della politica modicana e nazionale con una narrazione incalzante che descrive vicende politiche dell’ex Contea di Modica riferite alla D.C. di Papè La Rosa, a Saverio Terranova e Nino Avola, al P.C.I. di Virgilio Failla, a Giovanni Di Rosa e Meno Ruta.

L’io narrante di Lorefice allarga successivamente l’orizzonte su l’on. Berlinguer a Catania, sulla primavera di Praga e su Gibellina, per proseguire con un racconto descrittivo di eventi di arte contemporanea, del Po di Adria, di Ferrara città d’arte, di studi e minigonne, e di fatti religiosi come il miracolo di Padre Pio, l’evento dell’apertura da parte di papa Francesco della prima porta del Giubileo della misericordia a Bangui in Africa, fino ad estendere il racconto alle recenti stragi a Parigi al Bataclan e ai bistrot nel quadro dell’acuirsi del terrorismo internazionale. Cesare Lorefice si cimenta, dunque, in un’opera dove si coglie un armonico intreccio tra letteratura e storia, ricorrendo anche alla consultazione di fonti, di documenti, atti ufficiali e pubblicazioni di autori da lui personalmente conosciuti.

Un’opera interessante non solo per la lettura che della vita delle città nel periodo preso in esame riesce a fare, ma perché si connota come apprezzabile gesto di recupero memoriale di vicende personali e familiari, ma anche di vicende politiche, sociali, economiche, religiose e culturali, le quali approdano, in tal modo, al patrimonio storico collettivo.

Il testo è corredato, altresì, da un apparato iconografico vario ed interessante, e il suo valore sta proprio nella sua finalità comunicativa che scaturisce dall’ “esperienza diretta” dell’autore, il quale non scrive con l’occhio dello storico preoccupato solo di interpretare le fonti, ma con l’anima e la mente del poeta, del testimone, dell’uomo che dispiega il proprio itinerario esperienziale in un “racconto-documento” che approda sulla pagina per fissarne i lineamenti, i contenuti e le valenze simboliche e raffigurative più rilevanti.

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