IN PUNTA DI LIBRO……di Domenico Pisana. “L’Altro eri tu”: la poesia dell’anima di Salvatore Paolino “oltre l’eremo del tempo”

paolino

“Il ricordo è un consolatore molesto, diceva Kierkegaard, è un’ombra che non si può vendere, anche nel caso in cui qualcuno volesse comprarla!” E Pavese aggiungerebbe: a che serve passare dei giorni se non si ricordano?”
Bene, credo che l’eco di queste citazioni si trovi riverberata dentro l’ultima raccolta poetica “L’Altro eri tu”, Edizioni Associazione Culturale “Dialogo”, Modica, 2017, di Salvatore Paolino, il cui cammino poetico ha visto, in oltre un cinquantennio, la pubblicazione di 12 raccolte di poesia.

Paolino, che è stato Preside di Istituti d’istruzione Secondaria Superiore dal 1985 al 2004 e che ha concluso la sua carriera scolastica quale Dirigente scolastico del Liceo classico ed artistico “Tommaso Campailla” di Modica, dimostra, sicuramente, di amare le radici della sua terra, dei suoi legami affettivo-esistenziali.
Egli ha vissuto, nell’infanzia e nell’adolescenza, le difficoltà del dopoguerra, è cresciuto insieme al nuovo sviluppo economico, alla rapida modernizzazione dell’Italia, radicandosi poi nei mutamenti del ‘68, che, con tutti i suoi rivolgimenti socio-politici, ha dato il via all’inizio di un uno nuovo processo storico.
Il volume di Salvatore Paolino prende il titolo della poesia di apertura, “L’Altro eri tu”, che titola anche la prima parte del testo, e su cui poggia tutto il corpus della raccolta, che risulta intrisa di nostalgia ( si badi bene all’etimo della parola, formata dal prefisso “nostos”, che vuol dire “ritorno” e dal suffisso “algìa”, ovvero “dolore”) intesa come scontro dialettico tra uno spazio possibile ancora da percorrere e un tempo impossibile da recuperare.
Emblematico appare, in questa “voce di dolore che ritorna” e si riverbera nello scontro dialettico del ricordo, il rapporto di Paolino con il padre: “L’Altro eri tu / che ti portavi dentro / nuvole di pianto/ e visi sconosciuti / di fantasmi d’altri tempi / barbe incolte e occhi / pieni di malinconia / senza più rimpianti / pensieri assorti / vite sepolte dal tempo”.
C’è, nei versi di Paolino, quasi un foscoliano “movimento” della nostalgia. L’immagine della terra lontana del poeta di “A Zacinto”, che è la terra della madre, della lingua materna, diventa invece, in Paolino, l’immagine del padre al quale si rivolge come in una confessione che si snoda come un diario interiore “ ritmato – scrive il prefatore Federico Guastella – su limpidi monologhi con un tono il più delle volte dimesso e senza retoriche”: “Invecchiando / guardavi i giorni allontanarsi / in fretta con malinconia / già dal primo sorgere / del mattino…”; “…Il tuo tacere/ era voce di speranza / di desiderio di ascolto / di condivisione…Le mie parole vacue / tracimarono al vento / il tuo silenzio giacque / al gelo dell’inverno…”
E così il poeta si abbandona ad una “posizione nostalgica” ed usa una lingua, che è la lingua paterna, operando quasi un’ equivalenza tra il padre, la terra e la lingua. E’ come se con questi tre elementi, che sembrano divenire la stessa cosa, Paolino volesse ricreare, attraverso la fantasia e l’immaginazione, la “finzione” di un nuovo tempo, e cioè il tempo della poesia, il tempo del linguaggio, nel quale al “vero” tempo vissuto nell’infanzia si sostituisce il tempo della nostalgia nella sua valenza di ricongiungimento.
Certamente nella memoria di Paolino il passato diviene – direbbe Leopardi – “ricordanza” , una sorta di sentimento dolce e amaro. Se quel che Paolino ha vissuto dentro non c’è più, se quel “suo essere” in un tempo che non può più ritornare ha creato in lui una separazione, ecco che la nostalgia diventa un sentimento che la poesia trasfigura nella sua simultaneità di “presenza della dolcezza e del dolore” .
Anche la seconda parte del libro, dal titolo “Giorni d’autunno”, scorre dentro l’alveo di una dolente riflessione ove il discorso lirico del poeta presenta affacci crepuscolari e decadenti imbevuti di emozioni e stati d’animo che disegnano il tracciato di un percorso di meditazione sulla significabilità degli accadimenti umani: “Ormai penso soltanto / ai giorni d’autunno / al sole che si spegne / all’orizzonte…Anche l’ombra / s’appresta a distaccarsi / dal mio corpo rimasto / senza squame…”.
Il tono elegiaco e decadente non è tuttavia portatore di un senso di delusione e scetticismo nei confronti di ogni ideale e di ogni speranza, ma si connota come estrinsecazione di un atteggiamento di dialogo interiore del poeta con se stesso e con il mondo, atteggiamento sì malinconico, triste, ma aperto al bisogno di sospendere il tempo mediante la poesia, per ricollocarvi i vissuti già consumati nel corso dell’esistenza. E questa “sospensione del tempo” costituisce fondamentalmente il leit motiv della seconda e terza parte del volume, quest’ultima intitolata “Nell’eremo del tempo”, dove Paolino si ripensa come l’adolescente sognatore, innamorato sui banchi di scuola della dolce Nausica; dove rivisita gli affetti familiari, rievoca figure care, con linguaggio mesto, dolente e caratterizzato dall’alternarsi di toni melanconici in attesa della sera: “Sto sul pennone / d’una barca a vela / in balìa del vento / prima dello schianto / aspettando la sera”.
Se è vero – come dice Asor Rosa – che “Si ricorda per allontanare la fine, si ricorda per tornare al principio”, allora le poesie di Salvatore Paolino sembrano dirci che noi dipendiamo dalla voce dei ricordi; che i ricordi sono qualcosa di inesauribile, di insopprimibile, di consolatorio; i ricordi sono identità e conoscenza; i versi del poeta sembrano ancora dirci che il nostro “io” non è nient’altro che l’insieme di ciò che eravamo, di ciò che siamo e di ciò che saremo. Salvatore Paolino mediante il ricordo, la cui voce porta il passato nel presente, è come se rivivesse due volte la sua vita, tendendo inconsciamente a focalizzare momenti ed emozioni con versi che coltivano un passato amato e che non tornerà più, e che si muovono con la consapevolezza che occorre riconoscere il senso del limite davanti al tempo che scorre, che si consuma e che non ci appartiene più: “Vivo ormai i miei giorni / nell’eremo del tempo / della nostalgia dell’infanzia / nel segno che ristagna / la luce opaca della sera. / L’ansia che s’addentra nel sospiro d’una favola antica / d’una nenia cantata sottovoce / mi ricorda il volto / di mia madre chino su di me”.
In questa quadro di “ricordanze”, la poesia di Paolino si offre allora ai suoi lettori come una forma della memoria, la quale si lascia guidare dalla lingua divenendo “azione al presente” in cui l’attesa del Cielo assume ruolo determinante.
Paolino si presenta ai suoi lettori per quello che è, cioè con una poesia che non vuole incantare ma comunicare, con il suo linguaggio parlato, con la sua quotidianità spicciola, la sua semplicità, i suoi affetti, proprio per dare ascolto a quel bisogno di esprimersi che è dentro di lui e che fa di ogni uomo non la monade di Leibniz, ma quella creatura dibattuta tra il tempo della memoria e il tempo escatologico. L’autore ci fa dunque dono di una poesia che esprime nel verso, direi nella singola parola, il “battito del cuore”, magari fosse uno solo, ma autentico. E proprio in un mondo in cui i valori tradizionali perdono di significato e l’io si sente smarrito e frantumato da una crisi di identità, la poesia diventa per Paolino un atto dello spirito che lo restituisce al senso della memoria e della verità attraverso il linguaggio del cuore.
Pertanto, non sono certamente le ricercatezze stilistiche, gli esiti filologici della parola, i significati metalinguistici del divenire lirico a caratterizzare l’universo poetico di questa raccolta, quanto, invece, le connotazioni di una “poesia coscienziale e del sentimento”, cioè che nasce quasi in “presa diretta” dai filmati della memoria che evocano accadimenti ed esperienze di vita che trovano l’approdo sulla pagina mediante un intreccio lirico di confessioni autobiografiche e di oggettive descrizioni ottenute attraverso il ricorso a immagini plasticamente concrete e di una chiara ed incancellabile luminosità.
Essenziale, appare in Paolino il gusto di osservare ed abitare le cose, di addentrarsi, con la semplicità del fanciullo, nelle “forme del quotidiano”, direbbe Giulio Ferroni. La sua poesia si connota, insomma, come partecipazione alla vita e – dice bene il prefatore Guastella – “aderenza alla sconsolata visione dell’uomo , colto nel suo destino di angoscia, un vivere per la morte quando il disincanto assalta il cuore e la mente”.
A questa visione dell’uomo Paolino si accosta con il bisogno forte ed appassionato di cantare la bellezza del sentimento, avvalendosi di un linguaggio interiore grazie al quale egli vede se stesso, i suoi affetti, i suoi amori e le sue esperienze interamente immersi nell’universo della sua anima, ove egli si percepisce quasi come un attore- personaggio che cerca di ricucire , mediante un itinerario lirico, i tasselli del suo cammino umano fino al suo spegnersi: “…La notte langhe fino all’alba / senza alcun lamento / come la mia vita che si spegne / ormai senza alcun rimpianto”.

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