LA CRISI DELLA GIUSTIZIA E LA LOGICA SGHEMBA (ovvero: beati gli assetati di giustizia perché verranno giustiziati) di Salvatore Rizza

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Il mio amico Francesco trae spunto dall’articolo sul terremoto in Abruzzo per proporre l’abolizione tout courtI del secondo grado del giudizio di merito nei processi penali, non senza avvertire il lettore che la sua, probabilmente, è un’idea troppo sbrigativa o, addirittura, sgradevole.  Avverto i miei dodici lettori che stiamo parlando del presidente Bua, che, a Modica, fu – sto parlando di fatti risalenti a quarant’ani fa – prima Pretore e poi Procuratore della Repubblica presso il locale glorioso Tribunale.

Ciò detto, ritengo che l’idea del presidente Bua non è, come sostiene lui, per eccesso (sic!) di modestia, troppo sbrigativa e, tanto meno, sgradevole. La sua è, semplicemente, un’amara provocazione, o forse anche la sconsolata resa di un giurista raffinato di fronte all’orda barbarica che, non percependo la propria inadeguatezza culturale, incurante della propria ignoranza, pretende di indottrinare gli altri, riformando il complesso congegno che regola la giurisdizione. Egli sa che solo don Chisciotte lotta contro i mulini a vento e che nulla potrà, dunque, salvare l’Italia dal processo involutivo (l’unico processo, a quanto pare, in grado di procedere speditamente) in cui è caduta.
Constatazione, questa, quanto mai sconfortante, ma incontestabile considerando che siamo già a buon punto nell’opera di sistematica demolizione del sistema giustizia intrapresa dai governi – tanto di destra quanto di sinistra he, da circa cinquant’anni, si sono succeduti alla guida del paese. L’operazione, naturalmente, si avvale dell’apporto dottrinario di giuristi al servizio di tragiche ideologie o, peggio, di spregiudicati governanti che pretendono di utilizzare la macchina statale per favorire il proprio particulare e, per il resto, assolutamente ignari, vale a dire totalmente sforniti di ogni capacità raziocinante. Si deve a loro, soprattutto, la brillante intuizione che sta alla base dei risultati ottenuti e che si fonda su una logica che potremmo definire ad andamento sghembo. In base ad essa la corretta soluzione di un problema, a differenza di quanto si pensava fino ad oggi, non si ottiene con la razionale eliminazione degli elementi negativi che si contrappongono alla soluzione medesima, ma eliminando le conseguenze negative che il problema, tenuto in vita, continua a produrre.
Mi spiego meglio: un problema grande come una casa che non mi fa dormire la notte, seguendo la logica ad andamento sghembo, si risolve abbassando il costo delle case e agevolando il sonno degli addetti ai lavori, mediante la fornitura di letti particolarmente accoglienti e di potenti oppiacei.
Uscendo fuor di metafora e venendo al caso concreto, preso atto che il costo della giustizia impegnava in misura ritenuta eccessiva il bilancio dello Stato, che gli uffici erano sovraccarichi di processi, e che, infine, le carceri erano sovraffollate, il problema è stato risolto, nel primo caso, accorpando i tribunali e le annesse carceri giudiziarie aventi dimensioni ragionevoli (che, pertanto, facevano dormire la notte) a quelli più grossi e pletorici, in modo – si sostiene – da recuperare le risorse che in precedenza venivano impiegate per tenere in vita gli uffici soppressi (tanto, per dormire la notte basta pendere gli oppiacei in comune commercio), nel secondo caso, sottraendo alla tutela giudiziaria questioni ritenute irrilevanti (le cosiddette “bagatelle”) e con scarsa incidenza sociale, e, nel terzo caso, semplicemente chiudendo le carceri sovraffollate (probabilmente perché non vi erano più soldi per comprare oppiacei da fornire ai secondini).
Si tratta di una pensata geniale che ha trovato il consenso generale, visto che è stata compiuta a costo zero (fatta eccezione per gli oppiacei) in termini di esborsi da parte dello Stato. Pochi, a quanto pare, hanno obiettato che assai elevato è stato il costo per la comunità considerando le conseguenze nefaste che ne derivano. A nulla, dunque, sono valse le proteste di chi faceva notare che un siffatto modo di procedere non considerava, anzitutto, che vi sono servizi (sanità, istruzione, giustizia, ordine pubblico, difesa) che lo Stato fornisce anche per la sua stessa sopravvivenza e, quindi irrinunciabili, a prescindere dai costi necessari per il loro corretto funzionamento e che, pertanto, la loro soppressione implica in ogni caso, un danno per la società; che, inoltre, la notevole quantità di processi pendenti da anni, dipende, non già dalla eccessiva litigiosità dei cittadini e/o da un capriccio legislativo che si bea della criminalizzazione di condotte bagatellari, ma dalla obiettiva necessità di arginare una illegalità sempre più diffusa e pervasiva; che, ancora, l’accumularsi dei processi pendenti, dipende, in larga parte, da un congegno processuale reso, specie nella materia penale, pressoché ingestibile dalle continue, infelici riforme dei codici, aventi, come principio ispiratore, un garantismo che, nella materia penale, vede l’imputato come una vittima di una pubblica accusa dotata di uno strapotere da limitare a tutti i costi. Da qui la previsione di una pena che lo scandaloso restringimento dei termini di prescrizione ha reso alquanto ipotetica e dalla connessa agevolazione dell’attività defensionale tesa ad allungare all’infinito i tempi del processo. È sufficiente, al riguardo, por mente, a titolo di esempio, all’art. 525, 2° co, c.p.p. in base al quale “alla deliberazione [della sentenza – n.d.r.] concorrono a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”. Il che in parole povere, comporta che, nel caso in cui, esaurita la faticosa e complessa istruttoria dibattimentale (che impone, a sua volta, di risentire in dibattimento i testi già escussi nella fase delle indagini) venga a mancare, per qualsiasi ragione, il giudice – sia esso monocratico o uno dei componenti del collegio – (si pensi ai casi di malattia, decesso, pensionamento, astensione, ricusazione o trasferimento), bisogna ricominciare tutto daccapo, essendo escluso che la difesa conceda al p.m. la possibilità di utilizzare ugualmente la prova come sopra formata.
Vero è, per la verità, che la norma processuale anzidetta fa parte dell’originaria stesura. Vero è anche, tuttavia, che è tra le poche norme che il legislatore ha accuratamente evitato di riformare.
Eppure la protrazione dei processi e i tempi lunghissimi richiesti per la loro conclusione come sappiamo, vengono tout court addebitati ai giudici (additati da una diffusa e astiosa iconoclastia, come privilegiati perditempo) che, pure, fatta eccezione per i non certo numerosi giudici inadeguati, fanno in silenzio il proprio dovere fino al sacrificio della vita (ma, si sa, un giudice viene lodato solo a condizione che si faccia ammazzare).
Decisamente surreale è, infine, la soluzione adottata con riguardo al sovraffollamento delle carceri. Una soluzione in linea con la logica sghemba di cui si diceva all’inizio, visto che con la depenalizzazione di parecchi reati (tra questi, si segnalano, tanto per citare qualche “bagatella”, il furto in abitazione e la truffa), sono di fatto diminuiti i condannati alla pena della reclusione. Ciò ha, tra l’altro, consentito di chiudere alcune carceri che avevano richiesto, per la loro trasformazione in alberghi a cinque stelle, una vagonata di soldi (nel circondario di Ragusa sono stati chiusi la casa circondariale di Modica e l’ex carcere mandamentale di Ispica facilmente convertibile in casa circondariale, realizzato ex novo appena qualche anno fa e mai utilizzato,
Detto questo, che dire, ancora?
Che, per quel che ci riguarda da vicino, l’accoppamento (ovvero, l’accorpamento – scegliete voi) del Tribunale di Modica a quello di Ragusa è stata una iniquità inaudita, il cui unico risultato è lo spreco di diversi miliardi occorsi per la realizzazione del modernissimo edificio destinato a costituire la sede dell’ufficio da sopprimere, inaugurato pochi anni fa dall’allora presidente della Camera Casini e oggi abbandonato al proprio destino in una ai numerosi procedimenti rimasi pendenti e destinati ad essere sbrigativamente rottamati?
Che, la a dir poco precaria sistemazione, a Ragusa, dell’ufficio accorpato in locali inadeguati è andata a farsi benedire con la constatata (ma non ancora dichiarata) inagibilità dei locali anzidetti?
Che i processi provenienti dall’ufficio accorpato hanno, com’era prevedibile, enormemente aumentato il numero di fascicoli da assegnare a ciascun giudice, visto che, con la scusa dell’accorpamento, nessuno si è sognato di aumentare l’organico (anzi, qualcuno comincia ad avere l’incubo della diminuzione); che, insomma, come di solito accade, si sono fatte le nozze coi fichi secchi?
E qui, caro Francesco, arriviamo al punto da cui siamo partiti, con la domanda che segue: che senso ha rinunciare a un grado di giudizio per accorciare i tempi processuali, quando è proprio il legislatore che fa di tutto per allungarli?
Non sarebbe, semmai, meglio mettere, al termine del giudizio, di primo grado, un filtro di sola ammissibilità dell’appello, in modo che in fase di gravame pervengano solo i giudizi effettivamente meritevoli di riesame?
Sempre che, naturalmente, l’imperversante legislatore non ci metta mano per piazzare una delle brillanti soluzioni tipiche della logica sghemba.
Nel frattempo, attendiamo, come ci dicono i giornali, l’onorevole Bindi, presidente della commissione bilaterale antimafia, la quale dovrà esaminare i casi di Vittoria e Scicli, i cui consigli comunali rischiano di essere sciolti per sospette collusioni mafiose.
Spero che riesca a chiarire il perché dell’organizzazione mafiosa, del suo particolare modus operandi e che, soprattutto, spieghi a chi di dovere che la mafia mette le proprie immonde radici laddove lo Stato decide di togliere le proprie.
Si ricordi, in proposito, che, nel giro di poco più di quarant’anni, nel solo territorio di Scicli sono stati soppressi il commissariato d P.S., la caserma dei CC di Sampieri, la caserma della Guardia di Finanza di Donnalucata e, di recente la caserma di CC di Donnalucata, per non parlare della soppressione del Tribunale di Modica.
Si ricordi di spiegare, non solo a noi, ma anche a chi di dovere, che le popolazioni del sud Italia sono state storicamente costrette, dall’assenza dello Stato, a barcamenarsi tra il delinquente, per anni lasciato libero di prevaricare e un’organizzazione statale sorda, muta e sempre più lontana: la stessa che, dopo aver piantato baracca e burattini, sguarnendo in modo scandaloso il territorio dei presidi di legalità, interviene quasi sempre a tragedia avvenuta, per partecipare al rito solenne, pomposo e falso come un soldo bucato, delle esequie, in cui abbondano solo le parole; che lo scioglimento dei consigli comunali per sospetta mafiosità, si risolve di solito – anche ammesso che sia vero l’assunto (ma non è certo il caso di Scicli – in un ulteriore regalo fatto alla mafia, la quale, una volta radicatasi stabilmente nel territorio, a elezioni avvenute, continuerà tranquillamente a gestire la cosa pubblica attraverso i nuovi amministratori, questa volta (tra)vestiti con gli orpelli dell’acquisito regalo della volontà popolare.
Ricordi, infine, che Scicli si trova per la seconda volta a lottare contro le dicerie dell’untore che danno per certo e scontato ciò che certo e non è, come statuì, nel 1992, il TAR di Catania con la memorabile sentenza che annullò il provvedimento con cui veniva sciolto il consiglio comunale.
Che tutto ciò costituisce una immeritata onta per la città che vive di turismo e che vede distrutta la propria immagine, nonché per i cittadini, uniche vere vittime incolpevoli, costrette, prima a subire, inascoltate, i soprusi del delinquente non ancora mafioso, poi i soprusi della emergente organizzazione mafiosa e, infine, quando il misfatto è stato consumato, anche il disdoro della mafiosità, conclamata, per decreto, da parte del vero responsabile del disastro: lo Stato.

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