Il Governo è caduto Il Senato ha negato la fiducia con 156 sì, 161 no e un astenuto. Decisivi i voti di Mastella, Barbato, Turigliatto, Dini e Fisichella. Il premier si è dimesso, subito le consultazioni

ROMA – Romano Prodi non ce l’ha fatta. L’Aula del Senato ha negato la fiducia al governo con 161 no e un astenuto contro 156 voti favorevoli. I pronostici più infausti si sono avverati, l’Unione non ha la maggioranza a Palazzo Madama e a nulla questa volta è servito mobilitare i senatori a vita. Troppe le defezioni: al no di Clemente Mastella e Tommaso Barbato si sono aggiunti quelli di Franco Turigliatto (l’unico no targato sinistra), Lamberto Dini e il colpo di grazia inferto da Domenico Fisichella. Cinque voti di troppo, senza contare l’astensione di Giuseppe Scalera (e quella dell’ultimo minuto del senatore a vita Giulio Andreotti), che risultano fatali. Il presidente del Senato Franco Marini annuncia il responso e in Transatlantico a Palazzo Madama esplode la gioia anche dei deputati del centrodestra, arrivati per assistere alla debacle del governo Prodi. Al centro del salone, davanti allo schermo al plasma, c’è anche l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella: aspetta di leggere le cifre sul tabellone lontano da vecchi e nuovi alleati. Poi, lui che è stato l’artefice di questa crisi, scivola via senza parlare. Venire in Senato a contarsi è stata una scelta di coerenza, rivendica Prodi, non testardaggine. Eppure i numeri parlavano chiaro e a inizio seduta, alle tre del pomeriggio, non c’era nessuno pronto a scommettere che sarebbe andata diversamente. Neanche il premier: "È finita", scrive via sms a un amico a un certo punto della seduta, mentre è seduto nell’emiciclo della Camera alta. ‘Lambertow’ (Dini) entra e non saluta, Mastella va ripetendo che lui e i suoi sono fuori. L’aria che tira è di disfatta, nei corridoi e nelle stanze del Palazzo non c’è la fibrillazione delle volte scorse. Il centrodestra fa i conti e sa che questa volta la spallata è arrivata davvero. "Li ho contati uno a uno – dice Francesco Storace – e non hanno scampo. Male che vada finiamo 159 a 157 per noi". Il Partito democratico sa che la forbice sarà anche maggiore. Chi tiene il pallottoliere del Senato da due anni già immagina che i voti contrari saranno 161. Se il Professore, tirando dritto, non dando ascolto nè al Pd nè al Quirinale, voleva sfidare i ‘traditorì e mettere in risalto le crepe nei cespugli c’è riuscito. I diniani sono tre e ciascuno vota a modo suo: Dini si schiera ed è no, Scalera opta per l’astensione, Natale D’Amico resta con l’Unione. Tre anche i senatori del Campanile: qui Mastella e Barbato non rinnovano la fiducia, mentre Nuccio Cusumano offre il sostegno a Prodi. Divisione dal sapore amaro, quella in casa Udeur. In Aula volano insulti, qualcuno racconta anche di sputi, e Cusumano finisce per sentirsi male. Sviene, verrà portato in infermeria. Ben gli sta, commenta il partito: "È un traditore – dice il capogruppo alla Camera Mauro Fabris, fra i più convinti sostenitori della svolta – e ora si deve dimettere". Ma è possibile che non ve ne sarà bisogno, perchè di nuovo sale dai partiti del centrodestra (ma non solo) il coro ‘elezioni, elezioni’. Spetterà come è ovvio al capo dello Stato sciogliere il nodo, delineare lo scenario futuro. Da domani, con i presidenti delle Camera, cominceranno le consultazioni al Quirinale. Certo il voto anticipato non è mai stata l’opzione prediletta da Napolitano, che vorrebbe cambiare prima la legge elettorale. Ed era questo l’obiettivo del forcing del Colle sul premier affinchè evitasse di andare alla conta al Senato. Un ragionamento che il presidente della Repubblica non si sarebbe stancato di ripetere anche nel corso del colloquio di questa mattina. Prodi non ha voluto però cedere ed ha preferito andare avanti. Così questa sera, dopo la sconfitta non gli resta che salire per la terza volta da Napolitano e rimettere nelle sue mani il mandato. Mentre Walter Veltroni ‘chiama’ il centro destra alla collaborazione per le riforme contro il rischio di elezioni anticipate che, per il leader del Pd, precipiterebbero il Paese in una "crisi drammatica". Ma l’invito, almeno per ora, non fa breccia. Elezioni subito, gridano i militanti della destra (An e Fiamma Tricolore) in piazze diverse di Roma. Elezioni subito, chiedono con forza Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Il governo istituzionale, o tecnico o delle riforme, sembra allontanarsi: a volerlo sono solo in tre il Pd, l’Udc e un pezzo di Rifondazione, ma non bastano a renderlo una realtà. Anche se l’ipotesi è ancora in piedi e non a caso, a voto proclamato, tutti gli occhi si puntano sul banco della presidenza del Senato

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