IL DIARIO DI MARIANA DONTCHEVA, FUNZIONARIA BULGARA TRATTENUTA PRESSO IL CPT DI RAGUSA ED ADESSO FINALMENTE RIMPATRIATA

“Sono Mariana Dontcheva, curatrice del museo archeologico di Varna, in Bulgaria. Ho perso per cinque giorni la mia libertà, ho deciso di raccontarvi la mia esperienza al Cpt di Ragusa”. Veniva da Parigi, parla sei lingue, aveva la carta d’identità, ma non il permesso di soggiorno. “Sono Mariana Dontcheva, questa è la storia dei miei cinque giorni senza libertà al Cpt di Ragusa. Mercoledi, 20 settembre E’ un pomeriggio sereno. Sono a Grosseto a trovare il mio amico che tra qualche giorno dovrà sottoporsi ad un intervento in ospedale. Due carabinieri bussano alla porta di casa e chiedono i nostri passaporti. Li guardano, li sfogliano, poi ci dicono che dobbiamo andare in caserma per firmare dei documenti… Lì mi sottopongono un questionario, chiarisco i motivi del mio arrivo in Italia e compilo i miei dati personali. Firmo anche un altro foglio, mi spiegano che servirà alla questura dove mi dovrò presentare il giorno dopo. Ci invitano a salire in macchina, partiamo… ma non ci riportano a casa. Chiedo dove stiamo andando, capisco che la destinazione è un’altra caserma . Servono altri accertamenti, i carabinieri dicono che è una procedura standard. Non sono preoccupata, ma un po’ sorpresa sì: mi prendono le impronte, mi scattano la fotografia, cose che ho visto fare con i criminali ricercati. Comincio ad essere inquieta, chiedo che cosa sta succedendo. La risposta è sempre la stessa: non si preoccupi, questa è una procedura di identificazione standard, serve per evitare che gli stranieri entrino in Italia con un nome diverso… Sono curiosa, cerco di capire perché, per aver ritardato di qualche giorno la richiesta di un permesso di soggiorno, sono già considerata una persona che tenta di varcare il territorio italiano con un altro nome. Finalmente, dopo otto ore, riusciamo a tornare a casa. Giovedì, 21 settembre Mi presento alla Questura la mattina presto. Sono calma, aspetto paziente il mio turno, provo a fare qualche domanda ma non tira aria, fiuto un clima nervoso, mi rassegno. Rispetto il lavoro degli altri, non è sempre facile. Passano le ore e io sono sempre lì, senza che succeda niente, senza che nessuno mi dica niente. A questo punto chiedo che cosa vogliono da me, che cosa ci faccio lì. Mi dicono: lei deve solo aspettare. Sono in un corridoio stretto, vado su e giù, comincio a preoccuparmi. All’una e mezzo, finalmente vengono da me: devo firmare un foglio. Mi comunicano che mi porteranno a Ragusa in un centro d’accoglienza. Adesso ho paura. Alla mia ennesima richiesta di capire quel che mi sta succedendo, arriva la spiegazione: sarò espulsa dall’Italia perché non ho rispettato i tempi previsti dalla legge per richiedere il permesso di soggiorno. Provo a convincerli che sono una persona perbene, che c’è sì un ritardo ma anche la buona fede. Non posso capacitarmi di essere in una situazione del genere. La legge non si interessa dei singoli casi, mi dicono, la legge è una. Piango, mi vergogno. Penso che con tutte le mie esperienze di studiosa, sempre in giro per missioni culturali nella Comunità europea, non sono riuscita a regolare in tempo una richiesta di soggiorno per pochi giorni in Italia… Non mi era mai capitata una cosa così. Mi sembra di vivere un brutto sogno. Inizia il mio lungo viaggio da Grosseto alla Sicilia. I due carabinieri della scorta sono gentili, fanno di tutto per calmarmi. In piena notte arriviamo davanti alle inferriate del Cpt di Ragusa. Ci aspettano. Vedo donne insonni con gli occhi spaventati. Ricevo lenzuola di carta, un bicchiere con il sapone liquido, un asciugamano. Mi mettono su un letto a castello. Venerdì, 22 settembre Non riesco a dormire, mi alzo presto. Il cellulare squilla in continuazione, sto organizzando una mostra, non capiscono dove sono finita, perché non torno. Mi danno una tuta, una maglietta, calze, biancheria intima. Il personale del centro è molto gentile, cerca di capire le storie di ognuna di noi e anche di aiutarci. Mi consigliano di prendermi un avvocato e spiegare quel che mi è successo davanti ad un giudice di pace. Le ragazze detenute nel Centro mi chiedono la mia storia e mi raccontano la loro. Storie diverse con un unico finale: siamo tutte qui, al Cpt. Storie che finiscono sempre con la stessa frase: “Non ho fatto nulla di male”. Una madre con cinque figli nati in Italia, laureata in economia, una ragazza che è andata a chiedere aiuto ai carabinieri e loro l’hanno portata al Centro, una donna incinta… Alcune di loro stanno a Ragusa da più di un mese. Io intanto mi leggo le procedure, cerco di capire i dettagli della legge che mi ha portata qua dentro. Sto malissimo, mi sembra di impazzire, i miei amici francesi e italiani mi confortano costantemente. Sabato, 23 settembre Dopo qualche minuto di conversazione, il giudice di pace mi spiega che per il mio caso non si può fare niente. L’avvocato Maria Platania è più ottimista, mi dà dei consigli. Io voglio solo andarmene al più presto da qui, voglio andare a casa mia, continuare il mio lavoro, partecipare alla presentazione del mio primo libro di poesie. Il mio Paese, la Bulgaria, entrerà nella Comunità europea tra pochi mesi, nel 2007, ma in tutti questi anni mi sono sentita sempre considerata e accettata come una cittadina europea. Sempre: fino a questa esperienza. Domenica, 24 settembre È il giorno più duro, più lungo. Non succede niente, non si muove niente da “fuori”. Ascolto le storie delle altre donne, mille volte uguali a se stesse. C’è grande solidarietà tra di loro, si appoggiano le une alle altre, spesso piangono sdraiate sul letto oppure ridono nervosamente. Rumore di cellulari che squillano, un’attesa infinita. L’unico evento è la mensa, aspettando il lunedì. Lunedì, 24 settembre I giornali italiani parlano di me! Questo mi aiuta, sono davvero grata alla stampa. Improvvisamente l’incubo finisce: nella notte io e altre cinque donne veniamo scortate fino a Roma. Le autorità italiane mi raccomandano al comandante dell’aereo: “Trattatela bene, è una brava persona”. Stringo di nuovo il mio passaporto, per 5 giorni non ho avuto identità. Ora sono libera. Spero che la mia storia faccia riflettere.

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